In… Formazione: La Voce del Parroco

Custodire la vita – L’aCCANIMENTO TERAPEUTICO

A partire dal concetto di adeguatezza etica delle cure, possiamo comprendere la situazione temibile che la bioetica di area linguistica neolatina descrive con il termine – mal traducibile in inglese – di accanimento terapeutico. Mentre l’espressione inglese futility sottolinea l’inutilità di un certo intervento terapeutico in termini di efficacia medica, l’espressione «accanimento» aggiunge alla «inutilità» l’idea di un’ostinazione perversa.

Si può, infatti, definire l’accanimento terapeutico come l’insistenza nel ricorso a presidi medico-chirurgici che non modificano in modo significativo il decorso naturale e irreversibile della malattia, non migliorando le condizioni del malato, ma addirittura peggiorandone la qualità della vita o prolungandone, senza speranza di miglioramento, l’esistenza penosa. Gli elementi chiave di questa definizione complessa sono l’insistenza, l’inutilità e la gravosità: la parola accanimento sottolinea, accanto alla sproporzione fra impegno medico-assistenziale e benefici, la gravosità inutile e quasi crudele degli interventi praticati, facendo pensare – non senza motivo – ad una forma di aggressività del medico nei confronti del paziente.

Rifiutare l’accanimento diventa a questo punto non solo legittimo, ma anzi doveroso, come segno di autentica responsabilità e rispetto verso la persona umana. Rifiutando l’accanimento terapeutico non significa, pertanto, abbandonare il malato, ma significa rifiutare di prolungarne inutilmente l’agonia o di tormentarlo con atti medici che non incidono significativamente sulla qualità della sua vita.

Ognuno ha diritto a morire con dignità, a vivere la propria morte in modo umano, senza trasformare la propria fine in un artificio tecnico disumanizzante o in un inutile dispiegamento di mezzi eroici. C’è una fase della malattia nella quale non ha più senso insistere con estenuanti, inutili terapie, gravate oltretutto da insopportabili effetti collaterali, o sottoporre il paziente a esami clinici invasivi o ad interventi chirurgici che servono solo a rendere più dolorosi gli ultimi giorni di vita.

Chi rifiuta l’accanimento terapeutico non facilita né affretta la morte della persona, ma semplicemente accetta i limiti della vita umana.

Obbligo morale del medico è quello di conservare la salute e la vita, non quello di prolungare l’agonia o infliggere sofferenze causate dalle stesse terapie e non dalla malattia.

Una situazione del tutto particolare è costituita dalle manovre rianimatorie e dalle cure intensive praticate sui neonati estremamente prematuri, nati cioè prima ella 27a settimana di gestazione (la gestazione normale dura circa 40 settimane). Prima della 22a settimana, stante l’immaturità per ora non risolvibile, dei polmoni, non è possibile sperare in una sopravvivenza, per cui i tentativi rianimatori sono inutili.

Dalla fine della 23a settimana di gestazione la speranza di una sopravvivenza cresce di settimana in settimana.

Attualmente, applicando sofisticati presidi assistenziali e terapeutici, si può avere sopravvivenza di neonati di 23 settimane, e persino di 22 anche se alcuni di essi sopravvivono con deficit motori e neurosensoriali gravi legati all’immaturità stessa.

Si pone il problema etico/morale, se tentare comunque le terapie intensive in questa zona grigia di viabilità incerta, tenendo conto del rischio di sequele soprattutto neurologiche.

Credo che non si possa parlare, in linea di principio, di futilità della rianimazione e delle cure intensive, ma, allo stesso tempo, bisogna confrontarsi con le condizioni di ciascun bambino e con la sua risposta alle manovre rianimatorie, pronti a desistere in caso di risposta inadeguata.

In tal caso si è anche pronunciato il Comitato Nazionale per la Bioetica nel 2008.   

Don Massimo, vostro Parroco