In… Formazione: La Voce del Parroco

Custodire la vita – Le Cure Palliative e la terapia del dolore

Nel malato terminale, per definizione, le cure specifiche sono ormai definite inefficaci, ma egli ha diritto alle cure minimali (idratazione, alimentazione, detersione delle ferite…) e alle cure palliative e sintomatiche, quelle cure, cioè, che non eliminano la causa di sintomi come la dispnea, il dolore, i diversi problemi a carico di pelle, cavo orale, e vescica, ma semplicemente ne attenuano la violenza.

Le attuali cure palliative vanno, però ben oltre le semplici cure dei sintomi. La medicina palliativa si prende in carico il paziente giunto alla fine della vita e, con lui, i suoi cari, cercano di rispondere in modo continuo, attivo e integrale ai suoi bisogni fisici, psichici e spirituali.

Le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire un processo naturale: il loro scopo non è, pertanto quello di accelerare o differire la morte, ma quello di preservare la migliore qualità della vita possibile nel momento in cui la vita declina sino alla fine.

L’espressione cura palliativa richiama il termine latino Pallium, cioè «mantello», per evocare il mantello di misericordia con cui avvolgere il malato nel tratto finale della sua esistenza, e perciò, giustamente, il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che «le cure palliative costituiscono una forma eccellente di carità generosa».

Fra le cure palliative un ruolo cardine è svolto dalla Terapia del Dolore. Il dolore, nella sua multidimensionalità fisica e psichica, costituisce una ferita profonda all’integrità della persona, pervade tutta la sua vita, la soggioga, la getta nell’ansia e nello scoraggiamento, la può portare a desiderare la morte come unica via di fuga da una situazione insostenibile.

Siamo persuasi che un credente può dare un senso all’assurdo umano del dolore e vivere il suo dolore, come partecipazione al dolore redentivo del Figlio di Dio. Può certamente accadere, che un cristiano maturo non solo accolga con spirito di fede il dolore psicofisico, ma persino che possa liberamente rinunciare, in tutto o in parte, ad alleviarlo. Sia chiaro, però, che questa accoglienza della sofferenza non può essere mai imposta e che esiste, anzi, un preciso dovere di carità che ci obbliga ad offrire ai malati, per quanto possibile, adeguato sollievo dal dolore, secondo l’antico adagio, «lenire il dolore è un opera divina»

La carta degli operatori sanitari afferma che le terapie analgesiche, «favorendo un decorso meno drammatico, concorrono all’umanizzazione e all’accettazione del morire». Dal momento che la devastazione psicofisica causata dai dolori che accompagnano molte patologie e, in modo particolare, la condizione di terminalità oncologica, è uno dei moventi principali per la richiesta di eutanasia, un’appropriata terapia del dolore deve essere uno dei cardini di un’assistenza centrata sulla persona.

L’uso degli analgesici è lecito anche se ne derivassero torpore o minore lucidità dei malati, ed è lecito provocare, in casi estremi, con farmaci opportuni, una sedazione profonda o palliativa. Secondo l’insegnamento di papa Pio XII, «non bisogna privare della coscienza il morente, se non per gravi ragioni», ma in certe situazioni i sintomi e, soprattutto, i dolori potrebbero essere così violenti e insopportabili e refrattari ad ogni terapia da giustificare la sedazione. Prima di giungere a obnubilare o togliere coscienza al malato, bisogna dargli l’opportunità, se possibile e se lo vuole, di soddisfarei suoi doveri morali, familiari e religiosi: il malato ha, infatti, diritto a vivere la propria morte con dignità e libertà, e a prepararsi ad essa dal punto di vista umano e cristiano.

Secondo l’opinione dei teologi cattolici e l’insegnamento autorevole del magistero, è permesso utilizzare analgesici che allevino la sofferenza fisica, anche se si prevede che questo possa portare più rapidamente alla morte, se l’unico scopo dell’intervento è lenire il dolore, se la morte non è ricercata né voluta in nessun modo, se il dolore è di violenza tale da giustificare il rischio.

È un’applicazione classica del principio dell’atto a duplice effetto. È bene tuttavia sottolineare che gli enormi progressi delle terapie antalgiche rendono questo rischio molto più gestibile.   

Don Massimo, vostro Parroco